Ovviamente al lettore consapevole si sarà già presentata l’intera polemica sul genere cosiddetto Fantasy, la sua legittimità in sede critica, la sua definizione, se possibile rigorosa, la sua classificazione in un quadro complessivo del romanzesco o del genere fiction, la sua ripartizione in eventuali sottogeneri, con riferimento a Tolkien (quasi sempre), alla Le Guin (raramente), a Coleridge (questo sì che è un tocco di stile!).
In realtà l’intera questione è malposta e deriva storicamente dal formarsi di certe abitudini critiche sulla base di pregiudizi cinquecenteschi mal assimilati e mal digeriti, soprattutto perché fin da principio essi stessi frutto di un’indigestione della Poetica di Aristotele e del suo principio dell’unità narrativa di tempo, luogo e azione, pensata per la tragedia attica del IV secolo a.C. ed estesa invece da questi luminari eccelsi a criterio sommo dell’intero genere narrativo, a detrimento dell’intero genere romanzesco medievale.
Sostanzialmente l’idea è che il romanzo medievale, con tutte le sue avventure che si susseguono una dopo l’altra senza soluzione di continuità, come per esempio nelle varie continuazioni dell’incompiuto Perceval di Chrétien de Troyes, manchi decisamente di una centratura, di un focus che ordini quella che rischia di essere una mera sequela di eventi casualmente disposti senza un nesso evidente tra loro.
Da ciò risulta evidente come la diatriba realismo-Fantasy si basi in realtà su una critica al contempo più antica e più sottile, indirizzata non ai contenuti, che in quanto fantastici sarebbero da evitare in quanto non esisterebbero o non corrisponderebbero al reale, ma alle modalità narrative e narratologiche, per quanto allora non esistesse ancora una narratologia sviluppata come si ha al giorno d’oggi.
Scrive la critica letteraria Maria Luisa Meneghetti:
Per cominciare, è colpa di Aristotele. Nel senso che il primo dibattito sul romanzo si sviluppa in seno al classicismo del secondo Cinquecento e in relazione al tentativo di applicare ai prodotti letterari moderni le regole di una Poetica aristotelica ridotta a mero campionario normativo. Non era difficile constatare che il romanzo medievale, o meglio i pochi tipi di romanzo di tradizione medievale conosciuti dal Rinascimento – le tarde, lussureggianti compilazioni in prosa che avevano rapidamente soppiantato i classici in versi del XII secolo, e i cantari in ottave -, ai quali però si affiancano creazioni nuove e complesse, come gli aulici e ibridi poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto, venivano clamorosamente meno a quel principio di unità d’azione considerato dagli aristotelici del Cinquecento uno degli imperativi categorici formali (Meneghetti 2010, pp. 9-10)
Come spiega appena oltre la Mereghetti, il problema in Italia sorgeva anche rispetto a una particolare esigenza critica concreta: giudicare l’appena pubblicato Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, a proposito del quale ad esempio lo stesso Torquato Tasso nel 1590 scriveva:
Grande dunque sarà convenevolmente quella poesia in cui la memoria non si perda né si smarrisca, ma, tutta unitamente comprendendola, possa considerare come l’una cosa con l’altra sia congiunta e dall’altra dependente. Ma viziosi senza dubbio sono quei poemi che sono simili a i corpi che non possono essere rimirati in un’occhiata, e in buona parte perduta è l’opera che vi si spende; ne’ quali di poco ha il lettore passato il mezzo che del principio si è dimenticato; però che vi si perde quel diletto che dal poeta, come principale perfezione, dee esser con ogni studio ricercato. Questo è come l’uno avvenimento dopo l’altro necessariamente o verisimilmente succeda, come l’uno con l’altro sia legato e dall’altro inseparabile, e come da un’artificiosa testura de’ nodi nasca un’intrinseca e verisimile e inaspettata soluzione (Torquato Tasso, Discorsi del poema eroico)
Si può ben vedere da questo passo del Tasso, indirizzato principalmente ad Ariosto, ma anche alla narrativa medievale, che il punto non è affatto contenutistico ma specificamente narrativo e narratologico. Ma a questo tipo di critica può rispondere senza problemi quasi l’interezza del cosiddetto genere Fantasy, dal momento che esso è modellato su una razionalità narrativa formatasi precisamente su questo genere di criterio. Il concetto di Mondo Secondario fornisce adeguata cornice all’idea non solo di credenza secondaria, ma ovviamente anche di credibilità secondaria e verisimiglianza secondaria (“è coerente con le regole di quel mondo!”).
Alla dichiarazione del Tasso si può comunque contrappuntare la dichiarazione di Jacques Peletier risalente al 1555, non moltissimi anni prima:
Il fait bon voire, comment le Poète, après avoir quelquefois fait mention d’une chose mémorable … la lasse là pour un temps: tenant le Lecteur suspens, désireux et hâtif d’en aller voir l’événement. En quoi je trouve nos Romans bien inventifs. (Jacques Peletier, De l’Œuvre Héroïque in Art Poétique)
Nella mia traduzione:
É un piacere vedere come il Poeta, dopo aver a volte menzionato una cosa memorabile … la abbandoni per un certo tempo: tenendo il Lettore in sospeso, desideroso e impaziente di vedere cosa accadrà. Motivo per cui trovo i nostri romanzi pieni di inventiva.
Il Peletier vuole qui lodare quella caratteristica peculiare dei romanzi cortesi che si definisce come entrelacement, o interlace in inglese, vale a dire una struttura ad intreccio in cui gli archi narrativi dei diversi personaggi si subentrino vicendevolmente in maniera ricorsiva. Un principio chiave di ciò che i retori medievali chiamavano dispositio, ovvero il criterio, esterno o interno al testo, che ne giustifica il posizionamento relativo delle sue sezioni. Tolkien utilizza proprio questo criterio dell’entrelacement nell’organizzazione di buona parte de Il signore degli anelli, e anche altri autori del cosiddetto fantasy, come George R. R. Martin, ne fanno ampio uso.
Tuttavia la dispositio e l’intreccio costituiscono criteri meramente distributivi o, per l’appunto, dispositivi, mentre resta da vedere da cosa dipenda l’aspetto pienamente quantitativo, vale a dire il suddetto proliferare di trame avventurose, giustapposte ovvero incastrate l’una nell’altra. Il che ci riporta invece alla amplificatio, a proposito della quale Virginia Krause scrive:
Nata nel romanzo in versi medievale del XII secolo, l’avventura cavalleresca si ritrova oggetto di amplificatio nel romanzo in prosa a partire dal XIII secolo. L’amplificatio combina due tendenze: la moltiplicazione e la spiegazione. In primo luogo, i cavalieri erranti e le loro avventure vengono moltiplicati, venendo a costituire ampi cicli letterari di spettacolare complessità, come se si volesse candidare l’architettura narrativa alla carica di rappresentante dell’alea dell’avventura. Al contempo, nella narrativa romanzesca in prosa, l’avventura viene completamente saturata di spiegazioni causali, psicologiche, morali e mistiche. Tuttavia, nonostante la proliferazione attanziale e la sovrastruttura esplicatoria, il romanzo in prosa conserva un posto per l’enigma nella sua economia narrativa. Dietro “l’aventure merveilleuse”, secondo Douglas Kelly, si trova la ricerca del significato, ma anche una più oscura fascinazione per l’ignoto, l’oscurità, l’assenza di significato. (Krause 2009 in Lyons and Wine 2009, p. 72)
Si è già evidenziato come il procedimento dell’amplificatio sia lo stesso che, appunto, in architettura conduce dalla sobrietà, ora plausibile di esser vista come piattezza, dello stile romanico, alle fughe verso l’alto delle guglie e i contrafforti del gotico, e dalla luce bianca nelle finestre quadre (o tonde) del primo alla rifrazione multicolore delle vetrate istoriate nelle finestre ogivali del secondo.
Se i critici cinquecenteschi vedono in tutto ciò un sintomo del dispersivo, noi oggi possiamo ritrovarvi invece una straordinaria bellezza e un’inesauribile ricchezza, che più che a “l’ignoto, l’oscurità, la mancanza di significato” mi pare rimandare piuttosto alla luce rifratta, ai significati molteplici, e a quella che Tolkien nel saggio Sulle fiabe chiama Riscoperta (Recovery), vale a dire il ritrovare il nuovo nel vecchio, l’ignoto nel noto, il meraviglioso nel consueto, l’inafferrabile in ciò che possediamo e il trascendente nel familiare. Il principio della rifrazione delle luce è stato posto da Verlyn Flieger alla base stessa del processo creativo tolkieniano, in connessione anche alle teorie di Owen Barfield.
Certo, è Saruman che da Bianco diventa il Multicolore, dalle vesti che “non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva, scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista”. Gandalf gli dice di preferire il bianco, ed è Saruman a replicare che la luce bianca può essere decomposta, cui Gandalf sentenzia: “Nel qual caso non sarà più bianca” e “colui che rompe un oggetto per scoprire cos’é, ha abbandonato il sentiero della saggezza” (Isda II, i).
D’altro canto, il Tolkien di Sulle fiabe scrive: “Se possiamo prendere il verde dall’erba, il blu dal cielo e il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago – su un certo piano”, cosicché “in una simile ‘fantasia’, come viene chiamata, si crea una nuova forma; ha inizio il Mondo Fatato; l’Uomo diviene un sub-creatore” (MF, pp. 184-85). Il simbolo stesso eletto da Tolkien a rappresentare la Fantasia è il Sole Verde, vale a dire la sorgente di luce stessa che assume i tratti di un suo colore, vale a dire di un suo frammento nella frantumazione rifrattiva del suo spettro.
Ad ogni modo, riprendendo le fila del discorso, la critica cinquecentesca rimproverava al romanzo medievale le stesse caratteristiche dell’entrelacement, quindi della dispositio, e della amplificatio che per via della sua propria stessa teorizzazione gli pertinevano, dimostrando così di ignorare la stessa teoria su cui il romanzo medievale si basava, per applicargli invece i presunti stilemi della tragedia attica del IV secolo a.C.!
Un errore metodologico, dunque, che però ha generato un’intera trafila di falsi ragionamenti, la cui ultima applicazione diviene ai giorni nostri persino contenutistica, nella pretesa di decidere al posto dell’artista il contenuto dell’opera, che dovrebbe secondo tale concezione corrispondere alla realtà materiale riduzionisticamente determinata, e non in qualsiasi modo a realtà del tutto diverse, quali possono essere le realtà ideative o immaginative, in una tracotanza critica al di fuori di ogni logica, dal momento che, ben si sa, non è la materia a fare l’arte, ma la forma che a tale materia si riesce a imprimere, finalizzata a ciò che, stavolta Aristotele è pertinente, può essere detto il sinolo (la composizione di materia e forma in un dato oggetto presente, in questo caso l’opera d’arte, che nell’esempio di una statua di Achille è stata realizzata conferendo la forma di Achille alla materia del marmo).
Risulta chiaro infatti che è l’associazione di quelle che oggi possiamo categorizzare come realtà fantastiche (elfi, draghi, unicorni…) con la digressione e la non-linearità della narrazione a costituire la possibilità del diniego a queste realtà prima dello statuto di personaggio, poi dell’attribuzione di realtà (si badi bene, ciò che deve essere escluso dal reale viene innanzitutto estromesso dal discorso: il nulla come prodotto di tabù linguistico).
Ma, per capire come invece tali realtà venissero concepite, e concepite allora quantomeno nella sopravvivenza di una parentetica ipotesi di realtà, occorre rivolgersi ancora ai difensori del romanzo nel Cinquecento. Così Jacques Gohory, uno dei continuatori del romanzo tra i più diffusi e di successo dell’epoca, Amadis di Gaul, di Herberay, nel prologo al XIII libro della suddetta opera scrive:
Qu’il [le Rommanceur] ne traitte pas seulement les actes mais les modes et manieres d’icelles, des evenements il assine les causes, ou de cas fortuit, ou de pourvoyance, ou de temerite. (Jacques Gohory, Amadis de Gaulle, XIII Livre: Prologue)
Nella mia traduzione:
Il romanziere non tratti solo le azioni, ma anche i modi e le maniere di quelle, agli eventi assegni le relative cause, sia il caso fortuito, o la Provvidenza, o l’iniziativa umana.
Le tre possibili cause costituiscono “parte di una poetica del vero” (Krause 2009, p. 73), la cui ragione interna è meno immediata di quanto sembra, comportando la presa di distanza del narratore dalla narrazione stessa. L’evento fortuito è evento fortuito per i personaggi senza esserlo per il narratore, almeno non nel senso stretto di essere fortuitamente narrato, sebbene una tale possibilità sembri essere al contempo in un certo senso adombrata e finisca persino per risultare fondativa. Come scrive Krause, è proprio sull’indipendenza dell’evento fortuito sia dall’iniziativa umana sia dalla Provvidenza che si fonda la possibilità del romanzo, costitutivamente in bilico tra paganesimo e Cristianesimo per sua stessa natura, e al di là dell’intenzione dell’autore stesso, precedendo di secoli la nozione dei “libri che si scrivono da soli” o la concezione romantica del Genio.
L’evento fortuito per eccellenza infatti è proprio l’avventura, l’ ad-ventura che rimanda all’ad-ventum e all’ad-venire, ovvero a qualcosa che incontra il moto del personaggio incrociandolo nella direzione opposta, un moto contrario che paradossalmente aiuta nel portare fuori strada, spesso partendo da un incontro inaspettato con una damoiselle che può essere visto anche come un incidente di percorso, dove ancora abbiamo in-contra e in-cidens, qualcosa che viene contro al personaggio nel suo percorso e lo segna (cidens) dentro questo percorso stesso. Tutti termini legati al caso, nondimeno.
D’altra parte, Tom Shippey ha scritto pagine eleganti ed eloquenti al sommo grado sulla concezione boeziana del caso da parte di Tolkien, che con caso intendeva nondimeno la Provvidenza, sebbene una Provvidenza mediata anziché immediatamente agente in direttissima. Ne Il signore degli anelli, le Terre del Nord furono risparmiate solo perché “una sera, all’inizio della primavera, incontrai a Brea Thorin Scudodiquercia; un incontro casuale, come diciamo noi della Terra di Mezzo”, afferma Gandalf. “A portarmi da voi fu solo il caso, se così vuoi chiamarlo” è la dichiarazione di Tom Bombadil dopo aver salvato dall’Uomo Salice gli Hobbit nella Vecchia Foresta. Scrive Tom Shippey:
La “fortuna” è un intreccio continuo di provvidenza e libero arbitrio, una mescolanza di talmente tanti fattori che la mente non riesce a separarli l’uno dall’altro, una parola che rinchiude antichi problemi filosofici sulla base dei quali sono state combattute delle guerre e sono state arse vive delle persone. (…) In breve, le persone riconoscono in realtà l’esistenza nel mondo di una possente forza modellatrice che li circonda e, sia in anglosassone sia in inglese moderno, esiste una parola che esprime tale riconoscimento. Tuttavia, questa forza non influenza il libero arbitrio e non può essere distinta dalle normali operazioni della natura; soprattutto, non diminuisce affatto il bisogno di imprese eroiche: “Aiutati che Dio t’aiuta”, dice un proverbio inglese; “Il wyrd spesso risparmia l’uomo che non è destinato, almeno finché il suo coraggio regge”, concorda Beowulf. “La fortuna vi ha aiutato in quella circostanza”, dice Merry a Gimli e a Pipino (…), ma voi avete afferrato l’occasione con entrambe le mani, si potrebbe dire”. Se non l’avessero fatto, a quel punto “la fortuna” sarebbe apparsa senza dubbio molto diversa. (Shippey 2005, pp. 224-25)
Il romanzo è il genere che più di ogni altro prende atto di questa forza, dell’imprescindibilità del suo volere, dell’inviolabilità del suo incidere nella sfera della vita umana, e come si possa favorirla, o persino cavalcarla, o quantomeno limitare i danni. Il genere umano è da sempre in balia di un cosmo troppo complesso per poter essere veramente compreso e dominato; finanche l’incredibile tecnologia dei giorni nostri deve restare preda delle forze della natura e delle potenze del caso, e di queste il richiamo si sente forse ancor più proprio oggi che tale tecnologia per altri versi trionfa.
Ma allora chi ha bisogno di un genere Fantasy? Il romanzo stesso è fantastico, ed è fantastico perché reale, o possibile, come quell’elemento fantastico del reale che ne costituisce la più intima realtà, superando di molto ogni elemento reale del fantastico.
La condanna più dura arrivava però (deve sorprenderci?) proprio da chi parodiava il genere, Cervantes, che scrive che i rappresentanti del genere romanzesco:
sempre son composti con membri diversi, sicché sembra che voglian formare una chimera o un mostro, piuttosto che disegnare una creatura proporzionata. A parte questo, la durezza dello stile, l’inverosimiglianza delle imprese, gli amori lascivi, la goffagine delle cortesie, la prolissità delle battaglie, il dialogo scipito, i viaggi strambi, e finalmente l’assoluta mancanza di ogni invenzione intelligente li fanno degni di essere banditi dalla repubblica cristiana come gente inutile (Don Chisciotte I, cap. 47)
Si noti che, al menzionare la chimera, non è l’inesistenza della prima a causare il rimprovero, ma la mancanza estetica di proporzione, vale a dire la bruttezza. Il disdegno del romanzo è anzitutto una questione di certa estetica (“durezza dello stile”, “prolissità delle battaglie”, “dialogo scipito”) che si unisce a preoccupazioni moralistiche (“amori lascivi”) se non apertamente di etichetta (“la goffagine delle cortesie”), di rado giungendo a preoccupazioni “probabilistiche” (“inverosimiglianza delle imprese”, “viaggi strambi”) per arrivare alla condanna definitiva, che vorrebbe essere senza appello. In realtà non solo un appello c’è, ma in esso possono essere messi in questione l’intero insieme dei punti mossi nella critica di Cervantes, poiché le preoccupazioni estetiche sul romanzo rivelano scarso gusto, le moralistiche una falsità di coscienza, quelle di etichetta un risibile contegno, mentre le “probabilistiche” un calcolo di ragioneria.
Pensare che l’eco di simili voci si ritrovi anche in Tolkien stesso, quando nella lettera a Milton Wadman critica il ciclo arturiano, fa inorridire per la pervasività dell’errore. D’altronde è stato già evidenziato come Tolkien in alcune lettere non sia perfettamente trasparente. Si consideri invece quanto ha da dire Reto R. Bezzola a proposito dei romanzi medievali:
Come non essere (…) particolarmente sensibili a quest’arte che cerca l’essenza delle cose e degli avvenimenti dietro la realtà apparente, noi che siamo così vicini a Mallarmé e Rimbaud, noi che viviamo all’epoca di Claudel, di Aragon, (…) di Eluard, di Campana, di Ungaretti, di Quasimodo, di Landolfi, di Vittorini e di Kafka? (Reto R. Bezzola, Le sens de l’aventure et de l’amour: Chrétien de Troyes)
Ci si chieda questo, e ci si ricordi, quando si parla di Fantasy, specie con quella nota di dispetto, che quando si dice quella “parolaccia” in realtà si dice l’origine del romanzo e il romanzo originario. Se si dice romanzo, si dice il caso, si dice la sorte, si dice l’inventiva che li pone e che li affronta, al di là di ogni considerazione di questa o quella filosofia che vorrebbe indicarci cosa sia reale. Che sia quello il caso specifico in cui si parla di romanzo realista, come un’eccezione, non importa quanto diffusa. Negli altri casi, basti dire semplicemente romanzo.
Bibliografia
Bezzola, B. R., Le sens de l’aventure et de l’amour: Chrétien de Troyes, La jeune Parque, 1947.
Cervantes, M. de, Don Chisciotte della Mancia, Frassinelli, Milano 1997.
Gohory, J., Le treizieme livre d’Amadis de Gaule, Guillaume Guzman, Antwerp 1571.
Lyons, J. D.; Wine, K., Chance, Literature and Culture in Early Modern France, Ashgate, Farnham, UK, 2009.
Meneghetti, M. L., Il romanzo nel medioevo, Il Mulino, Bologna 2010.
Peletier, J., Œuvres complètes, Tome I : L’Art poétique d’Horace traduit en Vers François (1541) et L’Art poëtique departi an deus Livres (1555), Honoré Champion, Paris 2011.
Shippey, T., La via per la Terra di Mezzo, Marietti 1820, Genova-Milano 2005.
Tasso, T., Opere, Newton Compton, Roma 1995.
Tolkien, J.R.R., Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2003.
Tolkien, J.R.R., Il signore degli anelli, Bompiani, Milano 2013.